Induismo, una delle culture religiose più antiche del mondo

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L’induismo, conosciuto in genere come Sanātanadharma (in sanscrito devanāgari, che letteralmente significa ‘legge/religione eterna’) è una delle fedi religiose più diffuse al mondo e quella che vanta le radici forse più antiche.

Al 2011, il censimento realizzato dal governo nel solo continente indiano, in merito alla religione professata dalla popolazione, contava gli indù in 966.257.353, una cifra importante rispetto all’intera popolazione che conta circa 1.210.854.977 persone.

Non è semplice riuscire a dare una chiara definizione dell’induismo dal momento che, più che una vera e propria fede religiosa, può essere considerato come un insieme di concezioni spirituali, di pratiche devozionali, movimenti a carattere teologico e metafisico, stili di vita. Questo insieme variegato di fede e pratiche ha come base i valori fondanti delle tradizioni religiose, ma i vari indirizzi differiscono tra di loro in base al modo in cui le diverse correnti interpretano la tradizione e la cultura religiosa, a seconda di quale degli aspetti è caratteristica preminente di ogni singolo movimento spirituale.

Etimologia della parola Induismo

Approfondendo l’etimologia della parola italiana ‘Induismo’, scopriamo che è la diretta derivazione del corrispondente inglese Hinduism, coniato e diffuso dagli inglesi, i quali avevano aggiunto il suffisso ism alla parola hindū. La parola hindū, tra l’altro, fu utilizzata sin dal tredicesimo secolo, anche dai turchi musulmani, per identificare la popolazione che rifiutava di convertirsi all’islam, insieme alla parola araba al-Hind, presente nei testi in lingua che sta ad indicare l’intera popolazione indiana.

La parola hindū alle sue radici aveva un significato puramente di tipo geografico, poiché deriva dalla parola iranica che identificava il fiume Indo, l’area dove erano collocati i suoi sette affluenti e la stessa popolazione che vi abitava. Sia il fiume che l’area geografica che lo riguardava furono chiamati in lingua sanscrita/vedica dal popolo indoarico come Sapta Sìndhu e Sìndhu, denominazione utilizzata in seguito anche dai Greci e dai Romani.

Con l’avvento del dominio della dinastia musulmana dei Moghul, che iniziò intorno al sedicesimo secolo, l’area ad oriente del fiume Indo fu chiamata Hindustān, poiché i Moghul parlavano il persiano antico e, in questa lingua la parola stān indicava il ‘luogo o territorio dove si sta’ e, appunto, gli abitanti vengono identificati col termine hindū.

Fu nel periodo della colonizzazione inglese che il termine ‘Hinduism’ venne adottato per determinare un complesso di diversi aspetti culturali e religiosi attribuiti esistenti all’area del Subcontinente indiano e da quel momento venne tradotto in varie lingue e utilizzato in tutta Europa.

In seguito gli indiani stessi adottarono questo termine, nonostante fosse stato coniato dagli inglesi per identificare e sancire la propria identità nazionale, così da contrapporsi ai loro colonizzatori.

Va comunque sottolineato il fatto che, il termine ‘hindū’, era già presente nel sedicesimo secolo nei testi sacri vaisnava ed era in antitesi con la parola yavana, che significava ‘musulmano’.

Tuttavia, la popolazione di fede hindū non definisce la propria spiritualità con il termine di ‘induismo’, definizione che non compare tra l’altro in nessun testo sia antico che moderno. Gli hindū definiscono la propria fede religiosa come Sanātanadharma (ovvero Ordine, Religione eterna, Regola, Norma) poiché i suoi insegnamenti non derivano dal vissuto umano ma hanno origine dalla rivelazione divina pervenuta attraverso i Veda che si sono manifestati agli antichi veggenti chiamati Rsi.

Più nello specifico lo definiscono come Varāśramadharma, cioè come il concetto di Dharma che sostiene ogni espressione dell’essere in base al suo posto nel mondo (varna), affidandogli un compito ben preciso da svolgere durante la sua esistenza in questa dimensione, un compito che prende il nome di āsrama (o ashrama), e che riguarda gli aspetti morale, sociale e spirituale.

La religione Induista è anche definita con il termine Āryadharma, ovvero la ‘Religione degli ārya’, oppure come Vaidikadharma, la ‘Religione dei Veda’.

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La definizione giuridica di induismo secondo la Corte Suprema dell’India

Fu nel 1966 che, in occasione della valutazione in merito ad una controversia, la Corte Suprema dell’India ratificò la normativa che definiva precisamente la qualifica di hindū e, di conseguenza, le attribuzioni dello stesso termine ‘Hinduism’, riassumendole in questi sette specifiche:

  1. Accettare con devozione e rispetto i Veda in quanto rappresentano la somma autorità religiosa e filosofica e ratificare l’accettazione dei Veda da parte di filosofi e studiosi induisti i quali devono adottare tale regola come base esclusiva di tutta la filosofia induista;
  2. Adottare la tolleranza, l’apertura mentale e la buona volontà nel comprendere e accogliere il punto di vista dell’interlocutore, tenendo sempre presente che la realtà ha numerosi aspetti;
  3. Accettare l’idea esposta da ognuno dei sei sistemi dettati dalla filosofia induista, onorando i ritmi dell’esistenza cosmica che alterna cicli di creazione, di mantenimento e di distruzione, fasi o ‘ere’ cosmiche appunto (dette yuga), che si ripetono all’infinito in cicli successivi intervallati da uno stato di latenza (detto pralaya);
  4. Accettare totalmente, da parte di ogni sistema a carattere filosofico induista, il concetto relativo alla fede nella rinascita e la preesistenza di ogni essere;
  5. Riconoscere e accettare il fatto che le modalità per ottenere la salvezza e la liberazione sono molte e diverse, ma si riconducono tutte al concetto di unione (o yoga) fra il sé individuale e il Sé assoluto;
  6. Comprendere la verità che, nonostante la quantità delle divinità da adorare sia numeroso, è possibile dichiararsi induisti e non necessariamente venerare le Murti, ovvero tutte le raffigurazioni delle divinità;
  7. Comprendere che, in difformità alle varie altre fedi religiose, la spiritualità induista non è legata o limitata da un insieme rigido e definito di concetti/idee filosofiche.

Un viaggio alle origini e all’evoluzione storica dell’induismo

In genere gli studiosi ritengono che il Vedismo, ossia la religione dei Veda professata dagli indoari, rappresenti le radici di quello che attualmente è definito ‘Induismo’.

La cosiddetta ‘Civiltà della Valle dell’Indo’ fonda le sue origini nell’Era Neolitica, intorno al 7000 a. C.

Il suo sviluppo si attestò tra il 3300 a. C e il 2500 a.C. andando via via a scomparire intorno al 1500 a.C.

Alcuni elementi degli aspetti relativi alla sua cultura religiosa si sono poi proiettati nell’Induismo.

Si trattava di una società di tipo agricolo a cui si era associata anche una civiltà urbanizzata piuttosto fiorente la quale aveva sviluppato collegamenti con la Mesopotamia e che ha lasciato tracce di considerevole spessore nell’arte e nello stesso tessuto sociale. Infatti, sono presenti numerosi elementi di corrispondenza relativi alla tradizione di tipo linguistico e iconografico tra la cultura della Civiltà della Valle dell’Indo e i fondamenti della cultura dravidica sviluppatasi nell’area dell’India del sud.

Le numerose figure femminili che rappresentavano il concetto di fecondità, rinvenute in questi luoghi, testimoniano il culto dedicato alla cosiddetta ‘dea madre’, devozione che potrebbe essere l’origine del culto della Dea, parte fondante della successiva corrente induista. In prevalenza, i ritrovamenti di queste rappresentazioni artistiche, raffiguravano la divinità femminile con forma umana, mentre quella maschile aveva sembianze animali, spesso come il toro, lo zebù o il bufalo d’acqua.

Intorno al XIX a. C., probabilmente a causa di siccità o inondazioni, la Civiltà della Valle dell’Indo declinò quasi all’improvviso. Nonostante ciò a Mohenjo-daro (città che si trova nella provincia di Sindh in Pakistan e dichiarata patrimonio UNESCO dal 1980), durante alcuni scavi sono stati ritrovati scheletri di persone uccise in modo violento, sul posto preciso in cui è avvenuto il ritrovamento. Secondo la teoria degli archeologi, ciò dimostrerebbe una potenziale invasione degli indoari sul luogo.

Intorno al 1500 a.C., con l’arrivo degli invasori indoari nella regione del Punjab, la cultura religiosa che portarono venne assimilata soltanto dalle comunità di tipo dravidico dell’India del sud mentre nell’area a Nord, questo tipo di spiritualità solo nelle piccole comunità rurali per poi ricomparire nel tardo periodo post vedico.

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Spiritualità vedica e Bramanesimo

Possiamo considerare come ‘era Vedica’, il periodo che parte dall’ingresso del popolo degli Arii nell’India del nord, fino al momento in cui questo popolo invase la piana del Sacro Fiume Gange intorno all’ottavo secolo a.C. Fu in questo periodo, infatti, che si formarono i primi gruppi stanziali e l’epoca in cui iniziò la prima stesura in forma di prosa dei Veda, dei Brāhmaṇa, e delle Upaniṣad, gli scritti definiti anche Vedānta (che significa ‘fine dei Veda’).

La fede religiosa Vedica si rifà all’insieme di testi sacri, i Veda, i quali erano stati tramandati nel corso dei secoli secondo la tradizione orale, dalle scuole brahmaniche (dette sākhā), prima ancora di essere trascritti in epoca più recente. In seguito, la popolazione degli indoari si spostò verso Sud e ad Est, perseguendo una politica di conquista di questi territori che in realtà non si concluse mai, tanto è vero che, ancora oggi, in vaste estensioni dell’India del Sud e nella sua parte orientale, si parlano ancora dialetti di tipo dravidico e munda.

L’era successiva al periodo ‘vedico’, cioè il lasso di tempo che va dall’ottavo secolo a. C fino ai primi secoli dell’Età moderna, viene definita dagli studiosi come Brahmanesimo, mentre l’era immediatamente successiva a questa, che si spinge fino ai giorni attuali, viene indicata come Induismo.

Ciò che distinse e delineò il passaggio dal ‘Vedismo’ al ‘Brahmanesimo’ fu il graduale e progressivo avvicendamento delle figure dei religiosi che si occupavano dei riti sacrificali.

Nel periodo del primo Veda (Rigveda), chi celebrava l’offerta sacrificale era lo hotr (corrisponde allo zaotar dell’Avestā), il quale era seguito da altri sacerdoti in scala gerarchica. Nei secoli successivi, attraverso la modifica dei capisaldi della dottrina in seno ai Veda, fece la sua comparsa lo udgatr, ovvero colui che cantava le melodie del Sāmaveda, a sua volta sostituito nel suo ruolo di sacerdote primario dallo adhvaryu (definito colui che mormora i mantra dello Yajurveda). Con l’avvento del brahmanesino, poi, tale figura sacerdotale fu sostituita dal brāhmana, l’ultimo religioso che vigilava sulla correttezza delle procedure relative ai rituali e si incaricava di rettificare qualunque tipo di errore, tale sacerdote è la figura che conserva l’ultimo Veda, lo Atharvaveda.

Regole e pratiche comuni nell’induismo

Il termine che descrive e caratterizza al meglio la struttura della vita religiosa di un hindu è varāśramadharma, parola che richiama il significato di ‘religione induista’.

Varṇa: il complesso sistema delle caste hindu

La parola varṇāśramadharma è composta dal termine varna (in sanscrito ‘colore’) e rappresenta l’appartenenza ad una precisa ‘casta’ dal momento che ad ognuno di questi gruppi (caste, appunto) è associato un colore preciso che le rappresenta.

I brāhmaa, ad esempio, sono sacerdoti, figure deputate allo svolgimento delle funzioni religiose. I katriya rivestono, invece, incarichi di difesa o funzioni politico-amministrative (termine che deriva dal concetto di potere temporale, espresso dalla parola katra).

Poi abbiamo i vaiśya, destinati a svolgere le attività nei campi, l’allevamento del bestiame o i commerci in genere. L’ultima casta i śūdra, sono ritenuti nefasti, portatori di disgrazia, specialmente le donne. La conseguenza è che le donne di casta brāhmaṇa dovranno obbligatoriamente sposare uomini del loro stesso grado. Nel caso in cui dovessero unirsi ad un appartenente dei śūdra, gli eventuali figli generati sarebbero considerati dei cadāla, ovvero spregevoli tra tutti i fuoricasta.

La crescita numerica delle jāti (le ‘caste’) in base a quanto stabilito dalla regola religiosa è dovuta alla presenza del kaliyuga, e ritenuta colpevole sin dalla Bhagavadgītā in quanto responsabile dello stesso ‘kaliyuga’.

Infatti, oltre alle diverse caste di cui fanno parte gli hindu, esiste anche un folto gruppo di avarna, persone definite ‘prive di colore’ o ‘fuori casta’, etichettati come ‘intoccabili’ (nispśya).

Appartenere ad un ‘varna’ non comporta necessariamente un inquadramento a livello di attività professionale e neppure definisce un certo gruppo di persone che svolge attività correlate (śrei).

Piuttosto, farne parte indica sia il ruolo sia il tipo di compito spirituale cui è orientata la persona sin dalla sua nascita, in base alla tradizione vedica.

Āśrama o ashrama: i cicli della vita di un fedele hindu

Il cammino esperienziale e spirituale relativo ai quattro stadi della vita di un hindu riguarda solamente, almeno per la regola formale, i componenti di sesso maschile delle caste denominate ārya, cioè quelle comprese nei primi tre ‘varna’, dal momento che ne sono rigorosamente esclusi sia gli śūdra così come i ‘fuori casta’, sia le donne appartenenti a qualsiasi casta. Questi quattro stadi sono sostenuti dalla letteratura Smti, e nello specifico dai Dharmaśāstra, i quali sono allineati alla suddivisione in quattro parti della Śruti, la conoscenza udita al principio dei tempi e trasmessa oralmente dalla casta sacerdotale dei brahmani.

Vediamo dunque i quattro stadi della vita, detti appunto āśrama o ashrama, di un hindu:

  • Brahmācarya: è il periodo in cui il giovane studente religioso, il brahmācarin, deve iniziare e completare lo studio dei Veda sotto la guida di un maestro (guru), osservando rigidamente la castità. Lo studente può accedere a questo stadio e alla relativa regola di vita religiosa attraverso il rito, indispensabile, dello upanayana.
  • Gārhasthya: il ragazzo, una volta cresciuto e diventato adulto, fa rientro alla vita sociale e familiare per predisporsi alla vita coniugale e diventare così, colui che “sta in casa” (gastha) adempiendo ai rituali riferiti al capofamiglia, ma anche beneficiando nelle regole dei piaceri mondani consentiti. Questo stadio della vita è molto importante per tutta la società hindu perché, come ribadisce la stessa Manusmti (uno dei trattati hindu di diritto che raccolgono le regole del vivere umano secondo il dharma), tutti gli uomini che vivono gli altri stadi della propria vita dipendono da coloro che vivono in questo.
  • Vānaprastha: in questo stadio, il capofamiglia nella sua vecchiaia ha ancora l’obbligo di espletare altri specifici doveri rituali, ma la sua condizione lo avvicina allo stadio ascetico in cui rinuncia ai piaceri di tipo mondano, ritirandosi in povertà, praticando yoga e la meditazione sul Veda, oltre alle pratiche di ascesi (tapas).
  • Sanyāsa: questo stadio caratterizza la cosiddetta ‘rinuncia al mondo’. In questo stadio l’hindu diventerà ‘asceta errante’ (yati), abbandonando ogni possedimento, la casa e i legami, vivendo solo di elemosine.
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Il Dharma e le sue regole nell’induismo

In origine il significato di Dharma richiamava il concetto di armonia indispensabile all’universo per poter mantenere coerenza e ordine al suo interno. Mantenere questo ordine nel Cosmo, aveva una diretta ripercussione nel destino del singolo individuo che se ne faceva testimone nel proprio ‘karman’.

La diretta conseguenza di questo aspetto fece sì che i due termini (dharma e karman) arrivassero a esprimere un concetto unico già intorno al II secolo a.C.

Fu così che la parola ‘dharma’ assunse un preciso significato, andando a rappresentare l’insieme delle regole che l’individuo deve osservare per vivere in armonia con l’ordine naturale delle cose e di conseguenza per restare all’interno della società.

Oltre al varṇāśramadharma (detto anche svadharma) relativo ai doveri dell’individuo in relazione al suo posto nella società e alla sua età, esistono altri aspetti di tipo generale che riguardano l’intera popolazione hindu indipendentemente dal tipo di casta a cui appartiene e dallo stadio della vita che sta vivendo. Tali doveri riguardano delle regole precise come il ‘non uccidere’, il ‘non mentire’, il ‘mantenere la purezza’ e l’osservare la ‘sincerità, la ‘veridicità’.

Un fedele indù, dunque:

  • crede nell’esistenza di un essere supremo immanente e trascendente; l’universo è sotto influsso di interminabili cicli di creazione, preservazione e dissoluzione;
  • ha fede nel Karma, la legge di causa ed effetto secondo cui ogni singolo individuo crea il proprio destino dai suoi pensieri, parole e gesti;
  • crede che l’anima si reincarni e si evolva attraverso molte vite fino a quando il Karma viene risolto e raggiunge il Moksha, la suprema Beatitudine e ‘Unione con Dio’, la conoscenza spirituale e liberazione dal ciclo delle rinascite, che in quanto legge universale non risparmierà una singola anima dal suo inevitabile destino;
  • crede in un essere divino che esiste nei mondi invisibili, nell’adorazione al tempio, nei rituali, sacramenti e principalmente nella sua intima devozione che crea una comunione interiore con deva e divinità. Un maestro illuminato, risvegliato spiritualmente denominato Satguru, è essenziale per conoscere la trascendenza assoluta in quanto disciplina personale, buona condotta, purificazione, pellegrinaggio, auto esame e meditazione;
  • riconosce la sacralità dell’intera vita che deve essere amata e riverita, da qui il rispetto di tutte le forme viventi nell’osservazione di Ahimsa (non violenza);
  • crede che nessuna religione in particolare sia al di sopra di ogni altra promuovendole come unica via di salvezza, ma che tutte siano facce dello stesso amore puro e della luce di Dio, e in questa profonda visione ognuna merita tolleranza e comprensione.

I quattro scopi legittimi della vita di un hindu: Purusārta

Direttamente collegata al concetto di varṇāśramadharma, è la nozione dei cosiddetti “quattro scopi legittimi della vita” (puruārta) i quali si compongono dei tre legittimi obiettivi “mondani” (trivarga) e un singolo obiettivo, moka, che li trascende tutti.

Si tratta di:

  • Artha: ovvero la ricchezza intesa in senso materiale, il successo, il potere personale, il benessere;
  • Kāma: la gratificazione, la realizzazione dei desideri anche di tipo sessuale (da cui pratiche come quelle ‘tantriche’ o quelle descritte nel Kāmasūtra);
  • Dharma: il concetto di etica, di giustizia, l’ordine, i valori morali e spirituali. Questa regola deve assorbire e guidare le due precedenti così che queste ultime non eccedano superando i limiti del legittimo, dando loro l’equilibrio e l’armonia necessaria affinché l’ordine universale sia mantenuto (di questo si parla nelle opere denominate Dharmasūtra e Dharmaśāstra);
  • Moka: detta anche mukti, è la liberazione totale, lo scopo ultimo di ogni esistenza in generale e nello specifico per gli hindu e riguarda l’affrancamento dalla catena delle rinascite, il sasāra, letteralmente ‘scorrere insieme’, cioè l’obiettivo finale dell’ultimo stadio della vita, il sanyāsa.

I simboli dell’induismo

L’Induismo è una religione con un forte simbolismo formale: le posture del corpo, la gestualità (Mudra), le acconciature, il vestiario, gli ornamenti, gli oggetti, i personaggi e le figure di contorno della sua cultura sono codificati secondo un preciso simbolismo.

Il linguaggio simbolico, in grado di rendere visibili i miti e le storie contenute nei Veda, è immediatamente comprensibile in tutto il subcontinente indiano.

Le murti ed in generale le sculture che raffigurano gli dei (nella sola Varanasi, con le sue migliaia di templi, se ne contano più di mezzo milione) sono ben distinguibili l’una dall’altra proprio grazie a questo codice condiviso e ben conosciuto. La pratica religiosa quotidiana è fortemente ritualizzata e basata sull’uso di simboli che riproducono dei o concetti religiosi complessi.

Di seguito un elenco di alcuni simboli dell’induismo:

  • Om, il suono primordiale, la celeberrima sillaba sacra, presente nei mantra ed utilizzato in tutte le adorazioni;
  • gli Yantra, complesse forme geometriche mistiche che aiutano la meditazione e avvicinano il devoto alla divinità venerata, segnalano o contraddistinguendo un luogo di culto. Disegnare uno Yantra equivale ad evocare la divinità;
  • il Lingam, simbolo fallico che rappresenta Shiva;
  • la Yoni, la vagina, simbolo che rappresenta la potenza femminile e la capacità di creare;
  • il Trishula, il tridente simbolo di Shiva;
  • il Sudarshana Chakra, il disco utilizzato da Vishnu come arma;
  • il fiore di loto, simbolo di purezza e bellezza;
  • la conchiglia, che provenendo dall’acqua e con la forma a spirale rappresenta l’origine dell’esistenza e viene suonata prima dell’adorazione;
  • la svastica, simbolo solare;
  • le impronte dei piedi (Pada), simbolo del maestro spirituale o del dio;
  • il Tilaka, un simbolo posto sulla fronte dei fedeli per evidenziarne l’appartenenza alle differenti correnti dell’induismo. Allo stesso modo il filo sacro dei Brahmana, alcuni abiti, il bastone (danda) dei guru e dei Sannyasa, le acconciature e i gioielli, i colori (come ad es. il color zafferano) contraddistinguono l’appartenenza ad un particolare gruppo religioso.

Le festività dell’induismo

Le feste religiose nella spiritualità hindu hanno origini antichissime tanto che se ne accenna anche nel Rgveda.

Il calendario liturgico induista è composto da numerose celebrazioni e, a parte la ricorrenza dello Makara-sakrānti, tutte le altre non fanno riferimento all’anno solare ma al calendario lunare dei dodici mesi il quale si conclude, a seconda delle regioni, o in un giorno di luna nuova (detto amanta) o in uno di luna piena (detto pūrimānta).

Con il Makara-saṃkrānti si festeggia il passaggio del sole nel segno del Capricorno (makara, appunto) e corrisponde praticamente alle nostre festività di Natale e Capodanno. È durante questo evento che i fedeli fanno il bagno di purificazione nel fiume Gange, un rito denominato Gaṅgā-sāgara-melā che si svolge alle foci del fiume, nei pressi dell’isola di Sāgara.

Tra il IV e il V secolo d. C. durante il periodo dei Gupta (la dinastia che regnò tra il 240 e il 550 d.C.) furono costruiti santuari e templi in tutta l’India e in conseguenza si moltiplicarono le varie feste spesso definite rathotsava (o ‘festa del carro’) a causa dell’usanza di issare su un carro in legno, costruito e abbellito in modo da riprodurre la struttura del vimāna (ossia il ‘tempio’), l’immagine del dio a cui il tempio stesso è dedicato.

Tra le feste rathotsava la più famosa è quella che si celebra nella città di Puri capoluogo della regione indiana di Oṛiśā durante il mese di Aṣāḍha (che corrisponde al nostro giugno-luglio), all’inizio della stagione monsonica estiva. In genere le feste sono precedute dal digiuno e come fulcro della cerimonia hanno la processione con la statua del dio collocata sul carro addobbato o su un trono vero e proprio.

Le feste principali sono:

  • Festa di Holi: si celebra in primavera e i fedeli (ma anche i passanti) sono spruzzati con acqua.
  • Festa delle nove notti: dedicata alla dea Kālī, la sposa di Śiva. Durante tutti e nove i giorni si costruiscono statuette della dea che poi, il decimo giorno, vengono immerse nel fiume più vicino.
  • Festa di Divalī: si celebra fra settembre e ottobre; ogni casa e tutti i templi vengono adornati con festoni e tantissime lampade.
  • Grande notte di Śiva: si celebra fra gennaio e febbraio in onore del dio omonimo.
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La presenza dell’induismo nel mondo

Sia in India come in Mauritius e in Nepal, l’induismo è la religione prevalente. Nello specifico, il Nepal è stata la sola nazione in cui l’Induismo era la fede religiosa ufficiale fino al momento in cui divenne una repubblica mentre il sud del continente asiatico è divenuto per la maggior parte di fede induista all’incirca dopo il III secolo.

Possiamo avere un’idea più precisa della diffusione della religione induista dalle percentuali dei fedeli nelle singole nazioni:

  • Nepal 86.5%
  • India 80,5%
  • Mauritius 54%
  • Guyana 28%
  • Figi 27.9%
  • Bhutan 25%
  • Trinidad e Tobago 22.5%
  • Suriname 20%
  • Sri Lanka 15%
  • Bangladesh 9%
  • Qatar 7.2%
  • Reunion (Francia) 6.7%
  • Malaysia 6.3%
  • Bahrein 6.25%
  • Kuwait 6%
  • Emirati Arabi Uniti 5%
  • Singapore 4%
  • Oman 3%
  • Belize 2.3%
  • Seychelles 2.1%

Un Viaggio alla scoperta della spiritualità in India

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Solo scoprendo chi veramente siamo possiamo giungere all’integrità con il nostro vero Io e quindi giungere alla pura e non condizionata felicità.

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